Il mondo sarebbe assai migliore se ciascuno si accontentasse di quello che dice, senza aspettarsi che gli rispondano, e soprattutto senza chiederlo né desiderarlo.
Josè Saramago
Le note in scala, suonate sul pianoforte, aprono la porta di uno spaccato di vita, quasi banale, insignificante. Svelano una semplicità che si traduce in gesti abitudinari, ben rappresentati dai rumori che si integrano, con una naturalezza sconvolgente, nello sfondo di un giorno appena nato. Il cinguettio e il garrire delle rondini fanno presagire ad una mattina di primavera inoltrata, e il dolce scampanamento al preludio di un giorno di festa. V’è un senso sublime di pace in quel risveglio dell’uomo, che giunge casto nello svelamento della sua nudità e rispettosamente confidenziale, ancor prima di assumere la sua verticalità, nello sbadiglio e nel goffo stiracchiamento. È l’iniziazione a un tempo che ancora non chiarisce il senso di quel presentimento, ma trasforma i rumori di quella abitudinarietà, in un rituale di ringraziamento alla vita, autentico e intensamente poetico.
È preludio a un giorno di gioia che si affaccia al davanzale di una finestra e posa lo sguardo al di là di essa, incontrando le cose, gli angoli della strada e le voci, che palesemente azzittiscono il tempo del presente e fanno risuonare la parola del cuore. Una parola che ha la leggerezza di un aeroplanino di carta e la forza di non ubbidire all’intenzionalità, a ciò, come direbbe Jung, che limita, anzi esclude la vita. "Paroles en l’air" giungono quando meno te le aspetti, ti lasciano ammutolito, sono la pausa musicale, la sosta in un tempo altro. Ti lasciano sospeso tra la sorpresa e l’attesa ed erompono, nel qui ed ora, con la profondità che è del cuore, cambiando improvvisamente la direzione delle intenzionalità, che sembravano segnare e non sempre appagare il volgere del giorno. Ecco pertanto la gioia: essa si assapora proprio quando si chiudono gli occhi e si mette a tacere ogni proponimento e ci si affida, in barba alla “ratio”, a quella forma di intelligenza che è sola del cuore, ovvero all’ingenuità. È il dono inaspettato, che giunge con pudicizia, senza far rumore; è la parola insperata che ci attraversa proprio là dove l’altezza e la profondità dell’essenza che ci costituisce, viene restituita senza pregiudizio agli occhi della consapevolezza e riunifica ogni più piccola parte di noi che era perduta, dimenticata. Essa ci riporta a casa dopo un lungo esilio, rompe i muri dei silenzi aridi, lasciandoci sbigottiti, quasi imbarazzati, senza un recapito chiaro dove poterla rintracciare, ringraziare, senza una ben identificata paternità. Ma non c’è sgomento, non c’è sconforto in questa istanza improvvisa. Qui semmai c’è l’effetto di una coriacea intenzionalità che lontana da ogni ingenuità finisce per agire proprio da ingenua, generando qualcosa che va ben oltre i limiti dell’intenzione stessa: quelle parole, là dove si svincolano dalla direzionalità finiscono per risvegliare un sentito e un’affezione collettiva che si fa voce all’unisono. Non oso pensare che sia sempre così, né tantomeno tradurne lezioni morali ma intuisco che questa è una metamorfosi straordinaria quella a cui l’uomo può giungere e gli effetti possono essere quanto mai sorprendenti, umanizzanti quando i suoi buoni intenti si fanno ingenuamente paroles en l’air.
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